Estratto dall’articolo pubblicato nella rivista “Quaderni Vicentini” n. 5 del 2018
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Sono stati chiamati Cimbri quei coloni d’origine germanica che dall’anno Mille dopo Cristo in poi iniziarono a trasferirsi nelle valli e sui monti posti a cavallo delle province di Trento Vicenza e Verona per disboscare e mettere a coltura un territorio selvaggio e scarsamente popolato. Quell’immigrazione continuò per altri tre o quattro secoli dando luogo alla creazione di un’isola etnica tedescofona inserita in un contesto veneto. A chiamarli furono i possessori di quei territori montani: e cioè da un lato i Vescovi di Vicenza Verona Padova e Trento1 e dall’altro i grandi monasteri e i ceti nobiliari delle medesime città. I coloni giunti soprattutto dalla Baviera parlavano un antico dialetto tedesco e s’occuparono inizialmente del taglio dei boschi e della lavorazione del legno: tra di loro si denominavano quindi “carpentieri” parola che in quel dialetto corrispondeva al termine “tzimber”. Nel contesto veneto nel quale andarono ad insediarsi il suono “tzimber” venne in breve tempo trasformato in “cimbro” per mera assonanza. Fine. Tutto qui. Quando si parla dei Cimbri delle nostre montagne non c’entrano quindi nulla i famosi “Cimbri e Teutoni” dell’epoca romana né altre più intriganti discendenze dai Celti dai Reti o dai Longobardi. L’emerita panzana di mitici barbari rimasti nascosti per un millennio tra i boschi vicentini e veronesi e “riapparsi” d’improvviso nel 1200 è stata inventata dai letterati umanisti del XIV e XV secolo che tentavano di spiegare “un tanto a spanne” l’etimologia della parola “cimbro”.
Nei miei romanzi la storia dei Cimbri fornisce humus ambiente e colore alle vicende gialle – che però si svolgono sempre nella contemporaneità del secondo dopoguerra – fornendo al lettore un’informazione precisa sull’atipico background culturale dei protagonisti e con essi di tanta gente della provincia vicentina e dei suoi dintorni. Nella narrazione la toponomastica d’origine cimbra si mischia al dialetto veneto le figure della mitologia germanica e alpina – l’Orco l’Anguana e il Salbanello – s’uniscono alle tradizioni venete dei paesi vicentini l’indole montanara cimbra si sposa con la comune tradizione alpina e con l’epica della grande guerra del ’15-’18. Si ricostruisce così uno spaccato della nostra società provinciale originale e intrigante fuori dagli stereotipi della venezianità o dalla retorica della “razza Piave”. A chi spesso descrive i veneti rinchiusi in un loro universo solipsistico e provinciale contrappongo dei veneti intrinsecamente – geneticamente – cosmopoliti.
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Oggigiorno si è oramai perso il dialetto derivato dal medio alto tedesco2 e sicuramente l’originale folclore cimbro si confonde per molti aspetti con quello genericamente veneto e alpino e però deve essere sottolineato con forza che i discendenti degli antichi boscaioli alemanni non sono nient’affatto spariti consunti dal trascorrere dei secoli ma sono ancora vivi e vegeti. […] i loro discendenti parlano oggi in vicentino schietto o in veronese o in trentino e talvolta manco si ricordano non dico dei propri avi ma nemmeno dei propri nonni. Per fortuna però ci sono i cognomi ci sono i toponimi e ci sono un po’ di documenti storici; per fortuna c’è stato chi ha scritto su di loro e che non tutti hanno dimenticato i canti i proverbi le filastrocche le festività tradizionali ecc. ecc….
Ma oltre a questo c’è qualcos’altro? Come si manifesta oggigiorno l’appartenenza e la discendenza dal mondo cimbro di una parte significativa della popolazione vicentina? Quanto ha inciso il mondo cimbro nella formazione di una peculiare “cultura vicentina” e più in generale di quella veneta? In quale maniera lo specifico modo di “stare al mondo” e di “vedere la realtà” dei veneti è stato influenzato dalla secolare coesistenza con una comunità straniera?
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E’ stato proprio esplorando questo tema di non facile svolgimento che ho pensato fosse importante mettere in luce un altro peculiare aspetto della storia del Veneto in generale e della provincia di Vicenza in particolare: e cioè l’adesione di “massa” di nobili intellettuali artigiani e popolo alla predicazione protestante. Un’adesione che non è stata sicuramente della maggioranza ma che comunque s’è rivelata assai significativa nei numeri e nei ceti coinvolti e che ha raggiunto il suo apice intorno alla metà del Cinquecento. A muovere il mio interesse verso questo argomento è stata una frase che con monotonia ritrovavo in tutte le pubblicazioni dedicate al mondo cimbro:
“La facoltà concessa dai Vescovi alle parrocchie cimbre di montagna di scegliere autonomamente i propri parroci fra sacerdoti di lingua tedesca provenienti dalla Germania venne drasticamente limitata intorno alla metà del ‘500 per il timore che dalla Germania quei sacerdoti portassero con se l’eresia protestante diffondendola tra i fedeli.”
Mi sono chiesto: ma questo timore dei Vescovi aveva fondamento oppure era solo una misura preventiva? Esisteva veramente questo rischio di contagio? Mi sono informato e ho scoperto che il primo eretico protestante processato dal Tribunale dell’Inquisizione di Vicenza nel 1535 fu un certo Giovanni de Alemannia che di professione faceva il parroco di Recoaro… Insieme al parroco di Recoaro vennero condannati altri tre eretici “thodeschi”: un certo Müller un certo Motsperch commercianti in Vicenza e un tale Matteo d’Alemagna artigiano tintore anch’egli vicentino. Tutti e tre di chiara origine germanica. Il legame già in essere fra l’eresia luterana e il contesto cimbro è apparso quindi in tutta la sua evidenza.
Addentrandomi poi nella storia del protestantesimo italico ho messo a fuoco delle altre informazioni significative. Ho imparato, ad esempio, che in Italia l’eresia protestante non fece, in generale, molti proseliti, con la sola ed eclatante eccezione del territorio della Repubblica Serenissima… In Veneto e nei territori attigui, il protestantesimo prosperò particolarmente a Venezia (colma di commercianti tedeschi spesso filo protestanti), a Padova (la sua università cosmopolita era un centro di irradiazione di idee ereticali), e nell’intera provincia di Vicenza, dove si sommava la presenza di una nobiltà tradizionalmente “tedescheggiante” (molte famiglie nobili discendevano da cavalieri germanici e soprattutto mantenevano legami culturali e commerciali con i paesi del nord Europa) con l’esistenza di ceti artigianali e popolari d’origine “teutonica” e assai sensibili, per storia, cultura e mestiere a quelle dottrine.
Furono almeno un paio i temi della predicazione protestante, che affascinarono i ceti artigianali, mercantili e popolari della nostra provincia: il primo riguardava il disconoscimento dell’autorità papale e, di conseguenza, di quella regale, con il logico corollario che poiché il Papa e il Re non rappresentavano affatto la volontà divina, non era né giusto, né necessario continuare a pagare le decime, a pagare le tasse, a ubbidire ai tribunali e a sottoporsi alle corvée obbligatorie, ecc. ecc.
Ventilare la possibilità di non pagare le tasse, pare avesse anche nel Cinquecento un fascino del tutto particolare…
Ma è un secondo aspetto, il tema che ha forse maggiormente influenzato il modo di pensare e lo stesso sistema dei valori, della gente vicentina: il protestantesimo sosteneva, infatti, che si conquista il paradiso solo operando bene su questa terra. A detta dei protestanti non servivano quindi sacramenti, indulgenze e pratiche religiose particolari: già il solo fatto di primeggiare negli affari e nel lavoro, l’essere stimati dalla propria comunità per le proprie capacità, l’aver successo, erano segni della propria condizione di “eletti”. I veri cristiani erano insomma coloro che non perdevano tempo in arcaiche pratiche religiose, ma che s’appropriavano del proprio destino, rompevano le pastoie delle corporazioni medievali, della manomorta ecclesiastica, dei vincoli feudali, e costruivano con le proprie mani il proprio paradiso in terra, prodromico di quello futuro nell’alto dei cieli. Si capisce al volo perché un messaggio del genere infiammasse una popolazione che nel difficile ambiente della montagna aveva costruito un carattere duro e spietato, una tenace capacità di sopravvivenza, uno spirito pronto ad ogni impresa. Quella gente non voleva più vivere una vita di stenti nell’attesa di un paradiso post mortem; desiderava diventare artefice del proprio presente e conquistare quel paradiso già qui in terra. E’ anche da lì, da quella predicazione – recepita nel vicentino soprattutto nella sua variante anabattista3 – che nasce, si forma e diventa operante quell’etica (protestante…) che da noi si è sempre sposata con lo spirito dell’intrapresa (del capitalismo…), con la voglia di darsi da fare. Nella società veneta e vicentina in particolare, nelle comunità di paese, è considerato buono, bravo e degno di stima chi è capace nel proprio lavoro, non importa se imprenditore o operaio. Se un lavoratore dà tutto se stesso, se è serio, capace e di parola, allora viene considerato a tutti gli effetti un buon cittadino e un buon cristiano. Il giudizio morale e la capacità professionale coincidono.
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I temi storici ai quali ho accennato e le considerazioni in merito alla formazione della cultura e del comune sentire degli abitanti dell’Altovicentino, forniscono il senso profondo dei miei libri e però costituiscono solo una parte. Essi, infatti, sono innanzitutto dei “romanzi gialli” e cioè narrazioni nelle quali l’intreccio, l’indagine e il mistero costituiscono la loro prima ragion d’essere. Nella “Valle dell’Orco”, accanto al giallo, s’intravedono delle tinte più scure, quelle del noir: il racconto prende inizio nel 1984 dalla morte di Aldo, un medico padovano che dopo aver lasciato la città, è andato ad abitare in una piccola contrada di montagna, contrà Brunelli, in comune di Torrebelvicino. Giunto lassù riesce a rompere l’iniziale diffidenza degli anziani montanari e a stringere amicizia con molti di loro. Ma qual è stata la causa della sua morte? Gli inquirenti sposano la tesi del suicidio e non indagano, però Aldo ha lasciato un diario e sarà tramite le pagine di quel diario che il suo amico Carlo, anch’egli foresto, scoprirà la vera natura di quella contrada rovèrsa. Scoprirà che la storia della contrada e dell’intera vallata affonda le proprie radici in una storia più vasta e antica, la storia dei Cimbri, sconosciuta ai suoi stessi abitanti. Le indagini di Carlo e dell’anziano parroco, don Barba, lacereranno il velo che avvolge quella morte e sveleranno altre tragiche vicende, appartenenti a un mondo strano e straniero che si pensava ormai estinto.
Ne “L’ultima Anguana” l’azione si sposta in Val Posina, nella contrada Mulini di Sopra. La Val Posina è una piccola valle incontaminata, chiusa fra i monti ai piedi del Pasubio, ed è anche da sempre considerata uno dei luoghi di più antico insediamento dei coloni thodeschi. La casuale scoperta di tre scheletri fa da innesco ad una storia gialla che sembra intrecciarsi, in maniera misteriosa e intrigante, con le figure mitologiche del folclore cimbro: la strega, l’anguana, il salbanello. Un’aura magica, da favola alpestre, circonda i bambini che all’inizio sono i veri protagonisti della vicenda, ambientata nel 1956. Poi l’atmosfera diventa d’improvviso cupa, plumbea e drammatica e sarà il maresciallo Baldelli, dodici anni dopo, a condurre un’indagine che riannoderà i fili della trama gialla con la storia delle antiche chioderie della Val Posina, della lotta contro i nazifascisti e delle piaghe dell’abbandono e dell’emigrazione, che da sempre affliggono quelle montagne.
In “Tutto è notte nera” la trame gialla prende inizio da un efferato delitto. Il maresciallo che indaga è il comandante della stazione dei carabinieri di Schio, Giovanni Piconese, perennemente scontento dell’andazzo dell’intera nazione. L’indagine s’incentra sull’ambiguo ambiente della comunità religiosa di Poggio Gorlini, al Tretto, e sui legami reali o presunti con l’eresia protestante. L’inchiesta degli inquirenti viene affiancata, e forsanche un po’ ingarbugliata, da quella condotta dal giovane corrispondente locale del Giornale di Vicenza e da un gruppetto di suoi strampalati amici, tutti residenti nella contrada Parlati Rossi, di Pievebelvicino. Mentre i Carabinieri cercano l’assassino, i giovani investigatori seguono le tracce di un misterioso tesoro finché, all’insaputa dei protagonisti, le due ricerche tendono pericolosamente a sovrapporsi.
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Contrà Brunelli, contrada Mulini di Sopra, contrada Parlati Rossi, i luoghi ove sono ambientati i tre romanzi, sono località immaginarie del tutto inventate, ma descritte in una maniera così minuziosa che le rende più vere del vero. A seguito della lettura dei romanzi, s’è innescato un divertente turismo letterario che ha portato molti escursionisti in giro per i nostri monti a cercare quelle località misteriose. Quelle” mitiche” località, quei luoghi così simili a tanti altri sono improvvisamente diventati affascinanti e misteriosi, hanno fatto “vedere” il paesaggio pedemontano con gli occhi della fantasia, col fascino del romanzo. Hanno fatto “toccare con mano” ai lettori che gli stessi posti e la stessa gente, alle quali abitualmente si dedica uno sguardo distratto, si possono invece rivelare interessanti, importanti e “unici” se guardati attraverso il filtro della loro storia millenaria.
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1. I Vescovi avevano ricevuto la gran parte di quei territori direttamente da investitura imperiale all’epoca degli Ottoni.
2. La lingua parlata in Germania nel medioevo.
3. Gli anabattisti privilegiavano gli aspetti sociali, in chiave egualitaria, del credo protestante. Sostenevano, tra le altre cose, che le proprietà della Chiesa dovevano essere date al popolo. Per una conoscenza letteraria dell’anabattismo vedi il romanzo di Luther Blissett, “Q”, Torino, 1999