Un dialogo-intervista tra Umberto Matino e Gigi Copiello1 pubblicata nella rivista Quaderni Vicentini n. 3 del 2022
Non sono un critico letterario. Ma i tuoi “romanzi gialli” mi piacciono. Come a tanti e da tanti anni. Sei ormai un “autore”, reduce da mille incontri… In tre parole…. che definizione hai raccolto dai tuoi lettori?
Beh, intanto, le tre parole che lascerei subito da parte sono proprio “critica”, “letteratura” e “autore” perché l’intento dei miei romanzi è solo di raccontare la storia del territorio vicentino in maniera semplice e “popolare”, svolgendo un ruolo che a me piace considerare simile a quello di un “cantastorie”. L’aspetto letterario e le ambizioni di autore li pongo in secondo piano… non che non ci tenga e non mi sforzi di scrivere decentemente, ma per me la qualità della scrittura dev’essere funzionale alla “qualità” e alla “quantità” dei contenuti. Preferisco correre il rischio di una caduta di stile o di ritmo, piuttosto che tralasciare una notizia suggestiva o una citazione illuminante. Molti lettori si dicono sorpresi proprio dalle tante informazioni che traggono dai miei romanzi e che li aiutano a guardare il territorio intorno a loro con nuovi occhi.
Alcuni pensano che io sia un “ricercatore storico” seppure abbia spiegato più volte che lungi dal frequentare gli archivi, io mi limito a divulgare le ricerche altrui: il lavoro degli storici accademici o dei tanti e valorosi studiosi locali. I miei libri hanno però come pubblico di riferimento non gli addetti ai lavori, bensì la gente comune, alla quale mi rivolgo veicolando i temi storici e antropologici con l’utilizzo di quella forma moderna di romanzo popolare che è il romanzo giallo, il racconto poliziesco.
Ho più titolo a parlare della nostra storia che racconti. In “Giallo Palladio” citi Parise e i veneti barbari… un pensiero che sicuramente già conoscevi, ma hai aspettato cinque testi per citarlo…
Certo che hai titolo di parlare delle storie che racconto! Ti sei interessato, per una vita intera, di lavoro e di fabbriche, di pianificazioni territoriali e di processi di trasformazione, di formazione professionale, di welfare… Sei stato il sindacalista più eccentrico e poliedrico del Veneto intero. Credo che tu abbia impiegato poco ad accorgerti che i miei gialli hanno proprio l’obiettivo di descrivere, con un certo disincanto, il territorio e la gente che sta intorno a noi. Ma un territorio e una gente per niente astratti: le persone hanno nomi, cognomi e fisionomie “reali” (i vari Pesavento, Pietrobelli, Vallortigara, Frigo, Pozzan, Zanella…) e svolgono lavori “normali” che ne definiscono l’aspetto e la psicologia (contadini, operai, imprenditori, edicolanti, pensionati…); ogni località ha il suo vero nome (Schio, Posina, Recoaro, Vicenza, Padova, Valdagno ecc.) e viene descritta per quello che è, sottoposta a imponenti trasformazioni che ne hanno via via delineato la conformazione attuale, l’immagine sia sociale che fisica.
Conoscevo da tempo la frase di Parise (2) e, soprattutto, conoscevo da tempo la dicotomia esistente tra città storica e urbanizzazione moderna, tra qualità del paesaggio e depauperamento dissennato del territorio. Questi fenomeni sono sotto gli occhi di tutti e io ho provato a descrivere queste dicotomie, queste contraddizioni per capire quanto siano reali e quanto solo apparenti. Tutto ciò lo faccio ormai da ben cinque romanzi scavando nella storia, nella lingua e nel folclore della provincia vicentina. Dal primo romanzo – la Valle dell’Orco – a quest’ultimo – Giallo Palladio – ho posto di volta in volta l’attenzione su aspetti importanti della nostra realtà così spesso sottaciuti, ignorati o “ghettizzati” in ambiti specialistici. Questi aspetti hanno costituito la tessere di un mosaico che è diventato sempre più chiaro, più nitido, più esplicito… L’esotica origine germanica di larga parte della popolazione; la straordinaria e profonda esperienza del protestantesimo; l’esplosione della rivoluzione industriale; l’esemplare ideazione del welfare sociale di Alessandro Rossi; la geniale invenzione palladiana del paesaggio veneto… sono tutte facce della medesima realtà, tutti fenomeni che tra loro intessono rapporti che vanno esplorati ed esplicitati.
Ed ecco allora che, dopo quattro romanzi, in Giallo Palladio “i barbari” di Parise irrompono finalmente nelle mie pagine. Ne diventano anch’essi dei “protagonisti” e proprio nel momento in cui racconto la sublime bellezza dell’opera palladiana, racconto necessariamente anche l’eroica epopea dello sviluppo industriale e il dilagare “devastante” del benessere economico… In Giallo Palladio tutto si tiene: i montanari cimbri e i nobili committenti di Palladio; la “genialità” degli inventori di macchine utensili e la genialità dell’inventore della “classicità” nell’architettura; le cave che devastano le montagne e le candide pietre calcaree che reggono la Basilica Palladiana. Tutto è avvenuto e avviene in questa provincia di montagne e di pianure, di veneti e di todeschi, di grande bellezza e di squallore dilagante.
Barbari: cioè “non illustri” montanari todeschi, scapà de casa… A proposito: ci voleva un barbaro “foresto” come te per cantare le gesta di noi barbari di qui!Ma tornando ai barbari: caratteri profondi, duraturi, veri…
I “barbari” di cui parla Parise sono una sua geniale intuizione letteraria, e a quella “intuizione” di Parise, alla sua “forza barbarica”, io ho provato a dare aspetto umano, con gambe, braccia e cervello, scavando nella nostra storia antica e recente. Sono partito dai Longobardi, per passare agli Ungari ed arrivare proprio a quei todeschi, scapà de casa – dalla Baviera medievale – e giunti tra noi latini… Ma mica tanto latini, perché anche noi, al tempo, del tutto simili a quei foresti! Gli stessi nostri Vescovi di allora, e i Conti, e tanta parte del ceto signorile di quel tempo, erano todeschi tanto quanto i nuovi arrivati, i cosiddetti Cimbri. I quali, a loro volta, sono anch’essi rimasti foresti per poco, proprio perché chiamati a eliminare la foresta, a “svegrarla”, ammansirla e coltivarla: con l’addomesticamento della montagna i foresti sono diventati nostrani, si sono cioè “integrati”.
Coltura e Cultura, sono parole simili tra loro, e i cimbri todeschi, tramite la coltura, hanno assorbito la lingua dei nostrani – il dialetto veneto – nel mentre i montanari nostrani, a contato con la cultura dei foresti, hanno fatti propri i loro modi d’essere, la loro visione della realtà: la dedizione al lavoro, l’intraprendenza, l’abilità manuale… La durezza, invece, nessuna delle due etnie ha dovuto apprenderla dall’altra, ce l’aveva già in proprio, perché vivere nei campi e sui monti rendeva tutti duri come pietre.
Questo nel bene. E nel male? Ad es.: tutti i letterati vicentini sono loro scappati di casa: Parise, Piovene, Meneghello; Fogazzaro messo fuori casa… Ha resistito Rigoni Stern, su in Asiago.
Nel male c’è che la “cultura del lavoro”, vissuta come unico orizzonte di vita, può creare un ambiente ostile, sterile e soffocante per lo sviluppo di qualsiasi altra cultura che rifiuti di avere come unico panorama esistenziale il lavoro e il guadagno, la concretezza della produzione di beni materiali e l’ambiente della fabbrica. Al di là di ciò, esiste un mondo intero: il mondo dell’arte, della bellezza, della letteratura, della filosofia, della musica, della gioia di vivere, di amare, di viaggiare… della politica intesa come servizio alla comunità e come tentativo di migliorare la vita di tutti.
Nel male c’è anche che la storia del nostro piccolo mondo provinciale non è riconducibile ad un lineare processo di progresso e di emancipazione. Esistono gli arretramenti, le sconfitte, le contraddizioni e le differenze. Per fare un esempio, le pulsioni innovatrici della predicazione protestante sono state soffocate dalla repressione spietata dell’Inquisizione e dall’imposizione della Controriforma con il suo portato di quietismo, conformismo clericale, demonizzazione del dissenso… Ne sa qualcosa Fogazzaro! Per fare un altro esempio: al riformismo rossiano di fine ‘800, all’utopia del “fraternariato”, ha fatto seguito l’assistenzialismo statalista e autoritario dell’epoca fascista; al cosmopolitismo della Repubblica di Venezia, il nazionalismo sabaudo e poi l’imperialismo straccione di Mussolini. Per restare in Giallo Palladio: all’empirismo geniale e spregiudicato di Palladio ha fatto seguito l’accademia e il conformismo progettuale di Scamozzi.
Per forza Parise, Piovene, Meneghello se ne sono andati! Hai presente che “aria” mefitica e bigotta si respirava nella nostra provincia negli anni ’50? E Rigoni Stern è rimasto su ad Asiago, perché a quel tempo abitare lassù era come vivere all’estero… Ma la ruota del tempo gira, il mondo cambia, le condizioni di contesto mutano perennemente e mai come oggi è possibile anche da qui, da questi territori di provincia, essere in contatto e in sintonia col mondo… e si può andare e venire, restare e non rimanere isolati… Valga per tutti l’esempio di Francesca Calearo, in arte Madame (si parva licet), divenuta una star della canzone usando la rete nella sua cameretta a Creazzo. Ai tempi di Parise, rimanendo a Creazzo, l’unica prospettiva per Madame sarebbe stata la coltivazione del broccolo fiolaro. Come è capitato anche per Renzo Rosso (l’esempio è già più pregnante…) che un tempo avrebbe potuto aspirare a divenire al massimo un sub-fornitore dei Marzotto o dei Rossi, e che invece la globalizzazione + rete lo ha emancipato dalla dura schiavitù di capitale + macchinari + tessuti, per lanciarlo nel mondo come operatore internazionale del “sistema moda”.
I “geni imprenditoriali” hanno fatto pezzi di Veneto, interi territori, ma non hanno fatto sistema: a Venezia non sono mai arrivati. E a Roma sono giunti solo come chierici di santa romana Chiesa (vedi Rumor). La fortuna di Palladio è stata la ritirata dei Veneziani dal mare…
È vero. Finora il mondo del lavoro e dell’impresa, il mondo della produzione e della tecnologia non è riuscito ad esprimersi adeguatamente né a livello regionale e tantomeno a livello nazionale. C’è stata spesso disattenzione e disinteresse verso la cosa pubblica e la politica, vista come un mondo “estraneo” e tendenzialmente ostile. È forse un limite dei “montanari”, di gente abituata a contare solo su sé stessa e sulla propria capacità: caratteri che stentano a “socializzare”. Intendiamoci: è gente comunque di buoni sentimenti, aperta alla solidarietà, al volontariato, ma da sempre in difficoltà a trasferire la propria capacità lavorativa e la propria intraprendenza nella gestione della cosa pubblica. Come giustamente fai notare, non è stato Palladio a conquistare Venezia, ma sono stati i veneziani, in difficoltà sui mari, a conquistare la “campagna” dove hanno trovato, bello e pronto, Palladio che ha dato auliche vesti al loro mischiarsi coi campagnoli, alle loro ville-azienda, ai loro investimenti fondiari. A Venezia città, Palladio ha costruito, in pratica, solo due chiese, e pure periferiche: San Giorgio e il Redentore. La sua architettura ispirata alla civiltà romana “d’Occidente” era sentita estranea a una capitale che da sempre aveva guardato all’impero romano “d’Oriente”, a Bisanzio.
Condivido anche l’altra tua osservazione e cioè che allorquando è capitato che il mondo veneto, e vicentino in particolare, esprimesse un ceto politico a livello nazionale (Rumor & C.) la cultura, la visione della società, delle quali quel ceto si è fatto portatore non sono state quelle d’impronta calvinista ed efficentista dell’impresa, quanto piuttosto l’animo moderato e conciliatore, la predilezione per la mediazione: un ceto che s’è dimostrato espressione più della Curia che della Confindustria…
1. Gigi Copiello, ex sindacalista, già Segretario regionale della Fim-Cisl e Segretario Confederale della Cisl di Vicenza. Commentatore politico del supplemento veneto Corriere della Sera, autore di “Manifesto per la metropoli Nordest” (Marsilio, 2007) e di “Bruno da Cittadella, dottore in malta” (Marsilio, 2012)
2. “Mi chiedevo quale cultura potesse legare la solenne bellezza delle colonne palladiane, dei mattoni e dei portici padovani, dei ponti veronesi, della scintillante Venezia […] all’enorme quantità di piccole e grandi fabbriche del Veneto e non ne trovavo nessuna salvo una e una sola: la forza barbarica della terra, che ha prodotto lavoro dei campi fino a ieri e ora produce lavoro nelle fabbriche.” Vedi in: Goffredo Parise, Veneto barbaro di muschi e di nebbie, articolo del Corriere della Sera del 1 luglio 1983. Vedi anche in: Lorenzo Cappellini (a cura di), Veneto barbaro di muschi e di nebbie, Bologna, 2016.